Colleoni (Segretario Spi Cgil Mantova): “in arrivo una legge di bilancio che impoverisce i pensionati”

Tra il 1700 e il 1800, la Rivoluzione Industriale fu all’origine dello sconvolgimento dei precedenti assetti sociali: la meccanizzazione del lavoro non necessitava più di competenze, abilità e capacità creative.

I lavoratori inurbati di estrazione contadina vivevano nelle fabbriche l’intera giornata, in condizioni di precarietà igienica e di insicurezza.
Ma è proprio dal quotidiano contatto e dal sentimento di condivisione dei bisogni che spontaneamente presero corpo relazioni interpersonali forti, vincolate da patti associativi e solidaristici di autodifesa.

Nei primi decenni dell’800 nelle officine e negli opifici maggiori del nord Italia erano limitatamente diffuse le collette, casse-deposito, alimentate dai lavoratori e gestite dal padrone che doveva provvedere a sostenerli in caso di malattia.
Altre forme di auto-assistenza erano perlopiù sporadiche e collegate all’esperienza delle confraternite e delle corporazioni di mestiere.
Le sovvenzioni erano di volta in volta commisurate a donazioni o ad occasionali elargizioni, derivate dal buon andamento della produzione, che venivano raccolte e distribuite senza norme, senza alcuna regolamentazione partecipativa e democratica.
Si trattava di forme assistenziali di tipo caritativo che non coinvolgevano i lavoratori nell’organizzazione sistematica delle tutele.

A fondamento di queste associazioni di lavoratori era la comunanza dei rischi legati all’attività lavorativa (malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione o morte).
Il bisogno del singolo veniva ripartito tra molti ed il diritto al sussidio era automatico.
Un diritto acquisito con il versamento di quote mensili, che raramente non venivano onorate nonostante i livelli salariali miserevoli: esse alimentavano un fondo autonomo e le risorse non utilizzate venivano accantonate a riserva indivisibile a beneficio delle future generazioni.
In nessun caso era possibile ridistribuire o spendere tra i soci la riserva finanziaria o l’avanzo di fine anno.
Tutto veniva finalizzato alla mutualità intergenerazionale e, in primo luogo, all’edificazione della sede sociale, dove i soci si riunivano nelle occasioni istituzionali e di svago.
Grazie al movimento sindacale e alla dottrina sociale della Chiesa, ci hanno “regalato” lo Stato sociale.

Come trait d’union vorrei prendere la data simbolo del 17 marzo: in quel giorno del 1861 nacque ufficialmente l’Italia, in quello del 1898 vide la luce il nostro welfare, con l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro degli operai.

In quest’ottica è solo il caso di accennare che la Cassa nazionale infortuni, progenitrice dell’attuale Inail, nacque nel 1883 (quarant’anni prima della marcia su Roma).

A conclusione di queste noterelle storiche, buona cosa sarebbe rimettere in agenda il tema previdenziale ripartendo dal mondo della scuola.

Non tutti sanno che in età giolittiana, ad esempio, sulla base di una legge poco conosciuta, la n. 521 del 17 luglio 1910 sulla “mutualità scolastica”, le maestre delle scuole elementari dovevano insegnare agli alunni, dai 6 agli 11 anni, le virtù della previdenza.

Ora, come facesse una maestra a illustrare a un bambino questa materia, per certi versi simile al risparmio ma sul lungo periodo, rimane un mistero, in un’età in cui per i fanciulli tutto è gioia di vivere e speranza per il futuro, infatti, poteva veramente apparire qualcosa di strano parlare della povertà lontana, quanto meno mezzo secolo, che avrebbe potuto colpirli se poco previdenti.

Ma se ci sono riuscite le maestre dei nostri nonni a inizio Novecento a creare una coscienza in tema di pensioni nelle giovani generazioni, con i pochi mezzi a loro disposizione, non potrebbe la scuola ripetere quell’esperienza per far sì che la previdenza non diventi una materia per soli addetti ai lavori, legata ad aridi calcoli statistico-attuariali o sterile propaganda politica?

Tutto ciò, ovviamente, con gli strumenti che offre oggi la moderna Pedagogia che, come la Storia, è una cosa seria

La previdenza sociale, è utile ricordare, nasce, nel contesto della legislazione sociale, da un’esigenza di protezione del lavoro come momento di equilibrio tra istanze di progresso e volontà di conservazione.

L’espressione tipica ed il nucleo originario dello Stato sociale è appunto la previdenza sociale.

A partire dall’obbligatorietà dell’adesione alla Cassa Nazionale di Previdenza, che diventa nel 1933 l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale – INPS.

La crisi economica e demografica che inizia a manifestarsi dalla fine degli anni ’80 impone una revisione del sistema pensionistico e, a partire dal 1992, viene avviato il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori pubblici e privati, configurando di fatto l’attuale sistema pensionistico che può essere definito misto, con:

• PREVIDENZA OBBLIGATORIA DI BASE (cosiddetto “primo pilastro”)
• PREVIDENZA COMPLEMENTARE (cosiddetto “secondo pilastro”), costituita dai fondi pensione contrattuali che hanno il compito di integrare la pensione di base
• PREVIDENZA INTEGRATIVA INDIVIDUALE (cosiddetto “terzo pilastro”) costituita dalle polizze vita previdenziali o da piani di accumulo dei fondi comuni di investimento.
Da allora si sono susseguiti numerosi interventi di modifica del sistema pensionistico.

Ma il sistema previdenziale è e rimane un pilastro fondamentale del tessuto sociale ed economico di ciascun Paese.
In Italia interessa direttamente quasi un quarto della popolazione, costituendone la principale fonte di reddito per pensionate e pensionati , riguarda, però, anche e soprattutto il futuro dei giovani.
Anche nel 2024, il Rapporto annuale dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) – il XXIII – si configura come un documento di riferimento fondamentale per l’analisi delle dinamiche previdenziali, sociali ed economiche che caratterizzano l’Italia.
In un contesto segnato da sfide significative, quali l’invecchiamento della popolazione, il calo demografico e le trasformazioni strutturali del mercato del lavoro, il Rapporto evidenzia
la stabilità
del numero di pensionati, fissato intorno ai 16 milioni.
L’analisi proposta riflette un sistema previdenziale coerente con i parametri dei Paesi dell’Unione europea, nonostante l’Italia si configuri come quello con l’aspettativa di vita più elevata.
Un Sistema previdenziale oggi in equilibrio, ma con problemi per il futuro.
Allo stato, dai numeri forniti dall’Istituto, il sistema pensionistico risulta complessivamente in equilibrio sotto il profilo della spesa, lo stesso Presidente ha confermato che “la tenuta dei conti è assolutamente in equilibrio”.
Nel 2023 le prestazioni (non i pensionati) del sistema pensionistico italiano sono 22.919.888 (+0,6% rispetto al 2022), per un ammontare complessivo annuo di 347.032 milioni di euro (+7,7% rispetto al 2022).

Qualche problema, però, si profila comunque all’orizzonte, e questo in virtù del calo della natalità e del progressivo invecchiamento della popolazione, che fa lievitare di anno in anno i numeri dei pensionati rispetto a quelli, proporzionalmente ridotti, dei lavoratori attivi.
L’età media di uscita dal mondo del lavoro e di collocamento in pensione è di 64,2 anni, dunque minore rispetto ai 67 anni d’età previsti per la pensione di vecchiaia, e questo in ragione della possibilità di uscita anticipata che il nostro sistema ancora contempla (attraverso quote varie; opzione donna; APE social; etc.).
Ma ci troviamo di fronte a requisiti che negli anni diventano sempre più pesanti e che hanno ovviamente rallentato e di molto le uscite.
Questa situazione determina, secondo l’istituto, un elemento di rischio in futuro sotto il profilo della tenuta dei conti, ma che a nostro avviso da qualche anno viene fronteggiato secondo uno schema oramai collaudato:
rinviare sine die la riforma della Fornero e ridurre invece, anno dopo anno, le uscite anticipate, ricorrendo a diversi stratagemmi (calcolo solo contributivo; slittamento finestre mobili; requisiti più penalizzanti; etc.).
Alla data del 31 dicembre 2023, il numero dei pensionati nel nostro paese era pari a circa 16,2 milioni, dei quali 8,4 milioni le donne e solo 7,8 milioni i maschi, con un costo complessivo lordo a carico INPS pari a 347 miliardi di euro.
Ma, a fronte di un numero più consistente (52%), il reddito medio da pensione per le donne risulta di molto inferiore a quello degli uomini: dei 347 mld € pagati da INPS, solo 153 mld vanno alle donne, e il loro reddito medio da pensione è pari solo a 1.524, 35 € lorde a fronte di quello degli uomini pari a 2.056,91 €.
Il “Rapporto” offre inoltre alcuni dati interessanti anche sul fronte del lavoro dipendente.
All’incremento occupazionale non ha corrisposto un incremento dei salari tale da compensare l’inflazione.
salari sono cresciuti mediamente del 6,8%, a fronte di una crescita dei prezzi di più del doppio (15-17%).
Ancora: dopo una maternità, le donne subiscono un calo dei redditi annui di circa il 76%, e tornano ai livelli precedenti solo dopo 5 anni, e inoltre, dopo un figlio, la possibilità di uscita dal lavoro sale del 18% per le lavoratrici.
Infine, i giovani, che risultano sotto impiegati e sottopagati: a fronte di una retribuzione media annua 2023 del lavoro dipendente pari a quasi 26mila€ lordi, gli under 30 guadagnano poco più di 14mila €, con evidenti riflessi negativi anche sulle future pensioni.
C’è dunque un problema di genere e un problema legato alle nuove generazioni.
I dati evidenziano la necessità di interventi urgenti e “le gravi lacune di approccio dell’attuale governo”.

Nel complesso, dal “Rapporto” emerge una situazione con parecchie tinte negative per il futuro.
Allora, per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico andrebbe allargata la base contributiva, migliorate le condizioni del lavoro e aumentate le retribuzioni, e per questo necessitano risposte urgenti e adeguate del Governo.
Il sistema continua a mostrare difficoltà nella creazione di posti di lavoro stabili e di qualità, fondamentali per una crescita sostenibile del Paese.
Per questo la Cgil ribadisce “la necessità di riorientare le politiche verso una maggiore qualità e stabilità occupazionale, diversamente da quanto in realtà sta praticando questo governo che in tutti gli ultimi interventi legislativi propone misure spot, maggiore precarietà e flessibilità normativa.
La vera sfida è il contrasto alle condizioni di lavoro povero che marginalizzano in particolare giovani, donne e soggetti più vulnerabili”.
Lavoro povero e crisi demografica rappresentano una vera e propria bomba a orologeria per il sistema previdenziale italiano
e per il futuro pensionistico di intere generazioni.
Ecco perché il rafforzamento della previdenza complementare, rispetto alla quale l’Italia è indietro nelle adesioni nel confronto con altri Paesi europei, è importantissimo per garantire ai giovani un futuro pensionistico dignitoso.
Anche se ovviamente tutto questo non basta per chi lavora con bassissime retribuzioni, oppure perché è entrato tardi nel mondo del lavoro e ha carriere discontinue.
Per questo, “è necessaria una pensione di garanzia, come la Cgil propone da tempo.
Comunque qualsiasi intervento sul sistema previdenziale non accompagnato da interventi strutturali nel mercato del lavoro rischia di non dare alcun risultato.
In ogni caso, in questo contesto di incertezza e difficoltà è fondamentale agire anche sulle pensioni complementari.
Altrimenti avremo assegni sempre più magri.
È importante ricordare che il nostro sistema previdenziale pubblico è a ripartizione: le pensioni attualmente erogate vengono pagate utilizzando i contributi versati dai lavoratori in attività.
Per poter funzionare in modo efficiente, questo meccanismo richiede crescita economica e crescita demografica, che nel nostro Paese, come detto, sono in forte contrazione.
Il tutto con effetti pesanti sul tasso di sostituzione, cioè sul rapporto percentuale tra l’ultimo stipendio percepito dal lavoratore e il suo primo assegno da pensionato.
Per questo servirebbero non slogan ma interventi seri che rendano il sistema più equo e sostenibile e, in ogni caso, non usare la previdenza per fare cassa, come invece sta facendo questo governo sin dal suo insediamento
“È necessario sì investire maggiormente sulla previdenza complementare, tuttavia anch’essa non può essere vista come una risposta risolutiva per tutti perché non darebbe alcuna copertura a coloro che hanno discontinuità lavorative”.

E’ difficile spiegare alle persone che se prendi 1.700 euro di pensione la perequazione non ti permetterà di fare la spesa come la facevi due anni fa, o che se sei un dipendente pubblico rischi di andare in pensione con 49 anni di contributi.
Ci sono temi che stanno tutti insieme.
E’ importante rivalutare le pensioni, è importante rinnovare i contratti di lavoro e in tema di previdenza c’è una questione totalmente assente nella politica di questo Governo e della destra in generale:
i lavori non sono tuti uguali.
Bisogna costruire una previdenza ad hoc che dia risposte ai lavoratori più fragili e alle donne.
Ci troviamo di fronte a un Governo che non parla più di pensioni eppure questo tema è sentito da lavoratori e lavoratrici.
La giornata di oggi è molto positiva perché stiamo provando, insieme, ad affrontare le novità della Legge di Bilancio sul profilo previdenziale ma tenendo insieme tutti i temi.
Quando come Cgil ragioniamo di precarietà e di rinnovo dei contratti di lavoro ragioniamo di elementi che hanno ripercussioni sulle persone dal punto di vista previdenziale.
Un tema sentito per le persone che vorremmo rappresentare, lavoratori e pensionati, con un Governo che aveva promesso di azzerare la legge Monti-Fornero che oggi, invece, è l’unica legge previdenziale in vigore.
E non solo: siamo nella situazione che sono riusciti a peggiorare quella norma criticata da tutto il mondo sindacale.
Nella mobilitazione che come sindacato stiamo mettendo in campo insieme alla Uil è necessario tenere uniti il mondo del lavoro con i pensionati, perché quando siamo poveri sul lavoro ci aspetta un futuro non dignitoso dal punto di vista dell’assegno pensionistico.
E questa dinamica è inaccettabile”.
Oggi il sistema previdenziale ha incongruenze che vanno rimosse.
Occorre equità in un sistema dove le persone più povere rischiano di essere povere al lavoro, senza il rinnovo dei contratti, con salari bassi, e povere in pensione.
“Il ruolo della Cgil in questa fase passa non solo attraverso le categorie, nei luoghi di lavoro attraverso il tentativo di rinnovare i contratti, ma è sempre più preziosa l’azione della Confederazione.
Sul tema previdenza lo vediamo dalle lavoratrici e dai lavoratori vicini al traguardo pensionistico che sono delusi e arrabbiati, e vengono ai nostri sportelli, ormai tardi per provare a vedere qual’è il loro futuro pensionistico”.
Un futuro regolato ancora da quella legge “Monti-Fornero” inasprita dal governo Meloni e che ha ripercussioni pesantissime di cui l’esecutivo non pare occuparsene.
Il tema della previdenza è troppo spesso trattato come un tema propagandistico, per ottenere consenso e voti, trascurando il nuovo contesto sociale, economico e demografico con cui dobbiamo fare i conti.
Altrettanto spesso si caratterizza per essere trattato nella logica dello scontro fra le generazioni, con il tentativo di addossare la responsabilità a carico dei padri e dei nonni, che dovrebbero rinunciare, secondo qualcuno, non al loro diritto ma a quello che viene considerato un privilegio, per consentire ai giovani un futuro dignitoso.
Ragionare di previdenza, come stiamo facendo, come tema di un nuovo patto generazionale significa invece lavorare per far crescere la consapevolezza che della previdenza occorre prendersi cura, per provare a farne terreno comune di mobilitazione fra le generazioni, non solo per correggere le iniquità e le rigidità introdotte dalla Monti-Fornero, ma per riaprire un cantiere complessivo sulla sostenibilità futura del sistema.
A monte di ogni ragionamento deve esserci per noi la difesa e la riconquista di un sistema universale di protezione, che sappia garantire trattamenti adeguati a chi è in pensione e la certezza del diritto a chi oggi è giovane.
Gli interventi continui sul sistema di rivalutazione, che pregiudicano la tenuta d’acquisto del reddito di milioni di pensionati (che nel dibattito pubblico paiono quasi privilegiati, dopo aver versato anni di contributi, quando prendono importi netti sopra i 1500 euro) e la crescita del lavoro povero, discontinuo, precario, che pregiudicano il futuro previdenziale di chi sta nel contributivo anche con vite lavorative lunghe, impediscono oggi la certezza di questo diritto.
Noi di questo diritto ci vogliamo occupare.
Le domande e i temi posti all’interno delle nostre assemblee, nei nostri dibattiti, sono quindi utili a costruire – nella più ampia mobilitazione generale della Cgil per un cambio del modello di sviluppo che abbia al centro lavoro e diritti – una grande vertenza sulla previdenza, in un Paese che invecchia e in cui la componente di popolazione al lavoro in rapporto ai pensionati è in calo drastico e in un Paese in cui aumentano i divari nella distribuzione delle ricchezze e cala la quota di reddito che va al lavoro a vantaggio dei profitti e delle rendite.
Lo facciamo ponendoci interrogativi a cui occorre dare risposte.
Come dare efficacia e forza a un sistema contributivo (che si applica interamente a tutti coloro che hanno cominciato a versare contributi dopo il 1° gennaio 1996), che per definizione non ha problemi di sostenibilità finanziaria ma ha alcuni rischi di sistema, legati alla longevità, alla bassa crescita del Pil e alla stretta correlazione con le condizioni del mercato del lavoro?
Quanti possono versare a lungo contribuzioni efficaci?
Quanti possono realmente allungare la loro permanenza nel mondo del lavoro?
Come facciamo diventare la proposta di una pensione di garanzia una proposta mobilitante per giovani e meno giovani?
Come deve essere finanziato il sistema previdenziale, alla luce dei cambiamenti del mercato del lavoro?
Come rendere omogenee e comuni le rivendicazioni dei pensionati per una adeguata tutela del loro potere di acquisto con quelle dei lavoratori attivi che oggi versano anche per sostenere quelle pensioni e che vogliono avere lo stesso diritto?
Domande che meritano una attenzione politica che superi la logica delle piccole correzioni al sistema, che meritano il pieno coinvolgimento delle persone e che pretendono risposte diverse dalla logica per cui la spesa pensionistica va per forza ridotta.
Domande a cui come Spi non rinunciamo a rispondere, difendendo e salvaguardando il sistema universale di diritti e protezioni.

“Accogliamo con favore quanto annunciato dal ministro Giorgetti in merito alla manovra 2025 che accoglierebbe le reiterate richieste avanzate dalla Fnp e dalla Cisl, in particolar modo su ciò che riguarda la rivalutazione delle pensioni e lo stop al meccanismo di sterilizzazione”: è quanto ha dichiarato Emilio Didonè, segretario generale della Fnp Cisl. “Ovviamente attendiamo la conferma di quanto anticipato dal ministro Giorgetti su ‘rivalutazione piena delle pensioni e rivalutazione delle minime’, ma se quanto detto trovasse conferma nelle misure finali del Governo ciò sarebbe un riconoscimento di quanto richiesto e portato avanti con tenacia e determinazione dalla Cisl e dalla Fnp nel proteggere i diritti dei pensionati e nel salvaguardare la loro condizione, soprattutto per ciò che attiene alla perequazione dei loro trattamenti pensionistici, contribuendo in tal modo a difendere il potere d’acquisto delle pensioni diminuito in maniera evidente a causa dell’inflazione e dei blocchi dell’indicizzazione di questi anni.”

Ad ascoltare il ministro Giorgetti, la prossima manovra di bilancio darà a tutti qualcosa, senza togliere nulla ad alcuno.

Ovviamente, le cose non stanno affatto così.

Avendo deciso di non andare a prendere i soldi dove sono:
extra profitti, grandi ricchezze, evasione fiscale (che invece continua a essere incentivata con il concordato fiscale, per rispettare i parametri del nuovo Patto di Stabilità risulterà inevitabile tagliare risorse sia al welfare universalistico, sia agli investimenti pubblici, fondamentali per fermare un declino economico che ci ha già regalato 19 mesi consecutivi di calo della produzione industriale.
Per questo tra tre giorni saremo in piazza con i lavoratori a sostenere le ragioni dello sciopero generale, ma a sostenere anche le nostre ragioni

Noi pensionati non potremo scioperare

Ma saremo in piazza anche per noi

Sono tre finanziarie che siamo in piazza con i lavoratori ma anche da soli.

La terza legge di bilancio targata Meloni, molto simile a quella dell’anno scorso, conferma che non hanno un’idea di Paese.
Un’altra legge di bilancio che impoverisce i pensionati, i lavoratori e il Paese.
Non possiamo permettercelo.
Per questo, dal 28 al 31 di ottobre come pensionati siamo scesi in piazza in tutt’Italia.
In Lombardia il 30 Ottobre abbiamo riempito Piazza San Babila
Questo governo targato a destra destra, nei primi due anni ha fatto cassa in profondità con le pensioni.
37 miliardi dal taglio alle indicizzazioni fino al 2032
Oggi la Meloni è pronta a confermare anche per il prossimo anno la rivalutazione delle pensioni all’inflazione per fasce.

Il giochino è sempre lo stesso: si modificano in peggio le leggi e poi, quando la frittata è fatta, si annuncia solennemente: “Tranquilli, non tocchiamo nulla”.

Il sottinteso che non si dice è: “Abbiamo già toccato”.

L’AUSTERITÀ È IL CARBURANTE DELLA DESTRA

L’inversione sulle pensioni ormai è un fatto politico.
Le promesse elettorali della destra non esistono più.
Le magliette con la scritta “stop Fornero”della lega sono solo un lontano ricordo.
Le pensioni minime a mille euro un traguardo ormai impossibile.
Già tanti quei tre euro in più nel 2025.
Ma è la beffa pensioni minime che aumentano di soli 3 euro.
A tre euro a finanziaria si arriva a mille tra più di 100 anni.
Ne sono passati più di 24 quando le prometteva Berlusconi.
Le donne sono le più tradite con Opzione donna, già di per sé punitiva perché da sempre pensata con il ricalcolo che taglia gli assegni fino a un terzo, resa dal governo di destra una misura per pochissime: appena 2.749 nei primi nove mesi di quest’anno contro le 11.594 dell’anno scorso, dice l’Inps.
Peccato che le due leggi di bilancio precedenti, il governo meloni sia riuscito ad azzerare di fatto opzione donna e quota 103, penalizzare fortemente ape sociale ed a operare tagli sulle rivalutazioni che avranno ricadute pesantissime sui futuri assegni pensionistici.

Il Governo vuole fare cassa con le nostre pensioni.

Cresce l’inflazione al carrello della spesa, crescono le bollette, ma i salari e le pensioni valgono sempre meno.
Tutte le promesse tradite della destra, da Quota 41 alle donne e ai giovani, alle pensioni minime da mille euro.

Anche quest’anno non sarà «l’anno delle pensioni».
Lo dicono a denti stretti i leghisti.
«non è la riforma delle pensioni della Lega», ammette il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon.
Altro che abolizione della legge Fornero.
Altro che Quota 41.
Altro che pensione di garanzia per i giovani precari di oggi e poveri pensionati di domani.
Altro che il 25% del Tfr obbligatorio nei fondi pensione.
Nulla di tutto questo nella terza manovra del governo Meloni.
Anzi paletti, tetti, finestre, ricalcoli.
Tutto per trattenere le persone al lavoro.
E la legge Fornero è viva e vegeta .

«Salvini dovrebbe chiedere scusa all’ex ministra perché le misure varate oggi sono molto più restrittive di quelle fatte allora»
Per questo in piazza abbiamo gridato e grideremo:
Non ce lo possiamo permettere
Non siamo il bancomat
Vogliamo difendere il nostro potere d’acquisto.
E allora serve la piena rivalutazione delle pensioni,
non vogliamo le briciole.
Giù le mani dalle nostre pensioni!!

FERDINANDO COLLEONI (SEGRETARIO GENERALE SPI CGIL MANTOVA), Relazione al convegno sulle pensioni di Bolzano 

Precedente

Prossimo